11 marzo 2013

Secondo anniversario del grande terremoto giapponese dell'11 marzo 2011


Mai scorderai, l'attimo, la terra che tremò.

Perché l'11 marzo di due anni fa è stato come l'11 settembre di 12 anni fa e come il 12 dicembre di 44 anni fa: non si può dimenticare la perdita dell'innocenza. Se non c'ero il giorno di piazza Fontana, ricordo bene il crollo delle torri gemelle: ero comodamente di fronte al computer. Così come ero di fronte al computer – ma molto meno comodamente – anche quando la Terra ha voluto ricordare a coloro che abitano su quel limbo di crosta chiamato Giappone che noi creature siamo solo ospiti nel nostro viaggio su di essa, autostoppisti scaricabili all'evenienza, una casualità di cui sbarazzarsi con naturalissima noncuranza.
Magnitudo 9. Non era a Tokyo: qua i danni fisici sono stati limitati a qualche tazza rotta. Nel Tohoku, più vicino all'epicentro, non ho mai ben capito quanto disastro abbia portato il terremoto in sé: ovvio, l'Italia sarebbe stata rasa completamente al suolo, però gli edifici nipponici sembravano aver retto bene. Ma poi è arrivato lo tsunami. E poco dopo lo "tsunami nucleare". Così anche qua a Tokyo non ci si è più sentiti al sicuro e i fortunati come me se la sono volata via. Il calore italico aveva poi lenito quel retrogusto di vigliaccheria ch'era rimasto in bocca.
Dopo due anni, a volte pensi di essere tornato: in quel luogo, in quell'emozione. Ma non è mai così. Le menti argute ci dicono che ogni volta che facciamo l'amore è perché vogliamo ricreare l'esperienza della prima volta. Ma – anche se meglio di allora – non sarà mai così. Perché noi e loro dimentichiamo che siamo obbligati nella direzione della nostra freccia temporale. Di qui non si torna indietro.
Specialmente dopo la distruzione. Raccogliere le macerie per poi ricostruire. Sicurezze, relazioni, case: tutto nuovo,  magari più bello di prima. Stiamo meglio? Può darsi. Ma al netto dell'entropia: i lutti, le risalite, il calore disperso nell'universo.
Non so ponderare gli orrori e le difficoltà di chi viveva e magari vive ancora da quelle parti, più su, vicino a Fukushima, con un pericolo nucleare irrisolvibile e umanamente infinito. L'empatia infinita è però propria di dio, e così a me resta solo il mio sistema fatto di piccoli rancori irrazionali e quel poco di sofferenza che ho provato direttamente: il crollo di un sacco di certezze e dell'amicizia ideale con questo paese che – nonostante sia impossibile odiare un posto dove l'accoppiamento dei panda allo zoo di Ueno è notizia più importante della gravidanza di Kate Middleton – non è più stata ricucita.
E quando il terremoto torna, come il 7 dicembre scorso con una scossa di magnitudo 7.3, può anche fare il solletico alle strutture giapponesi (intonse – e ripeto: l'Italia sarebbe stata fatta a pezzi), ma la paura rimane: prima quella di rivivere la tragedia dell'11 marzo e poi quella che tutto vada ancora peggio; non è possibile che la prossima volta esploda il Fujiyama e ci seppellisca tutti in una nuvola di fumo? Ma quando non ci sono conseguenze, i cataclismi non sono tali e resta solo la fretta di dimenticare.

Crediamo che le cose succedano solo agli sconosciuti
Rinneghiamo la tragedia

Ma è l'unico modo che abbiamo per andare avanti. Scrivere fa bene, finché c'è inchiostro. Poi non resta che una "freccia senza direzione" e l'eccitazione nel provare un detersivo liquido di nuova generazione: pulisce a fondo, i capi escono teneri, profumati e candidi come un'anima ancora immacolata. Come quella di un figlio che dorme ogni volta che la terra trema. Vai a dargli torto.

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